Un giorno, riflettendo su quanto io e la collega Tina Dolif facevamo per onorare questa meravigliosa disciplina, scrissi questo:
Il guardare un arciere tirare le sue frecce mi mette in
contatto con la mia anima antica, con l’eleganza e la crudeltà, con la vittoria
e con la sconfitta, con il maschile e il femminile, con la lotta e con la
pace.
Guardo l’arciere che si appresta a tirare e vedo in lui
lo sportivo di oggi, ma anche l’uomo primitivo di un tempo, astuto e
rispettoso, lo vedo inseguire per giorni la preda, solo o con i suoi compagni,
nel caldo afoso delle savane o nel freddo gelido delle foreste del nord
America.
Lo vedo combattere per la sua famiglia, per la sua
comunità, per la sopravvivenza del genere umano. Lo osservo in piazzola,
durante le gare, lo ascolto in pausa, davanti ad un piatto di polenta, lo
guardo ridere, lo ammiro mentre si prepara ad una gara, con i suoi piccoli
rituali.
Tutto il senso della vita è in quel gesto, quando posso
guardarlo. E io sono lì, sono lì come una donna della tribù che guarda i
cacciatori o i guerrieri che tornano al campo, li rinfocilla, ne ascolta le
storie, ne raccoglie le paure, ne cura le ferite.
Mi approccio al tiro con l’arco come fa un critico d’arte
con le tele più preziose: con rispetto, quasi con devozione, con la certezza di
scoprire sempre, con una nuova luce, particolari della Vita che, in altri
luoghi e in altri tempi, mi erano sfuggiti.
L’arcieria, praticata in questa forma, ci propone simboli arcaici che non faticano ad
entrare in sintonia con l'Uomo-Arciere, completamente immerso in una situazione
venatoria, seppur simulata, con l’utilizzo di armi antiche.
"E' la freccia
che parla dell’arciere”, mi ha confidato un giorno un amico istruttore.
Io ascolto quella voce. Ed ascolto anche la
voce dell’arciere, se si rivolge proprio a me dopo le sue fatiche, con l’onore
e la grazia che si riserverebbe ad un ospite importante nella propria casa.
Poi la faretra che è, per un arciere, l’involucro delle armi più micidiali; ma è anche lo stesso contenitore che si utilizza per riportare a casa le frecce inutilizzabili, prima di poterle riaffilare, prima di pensare in quale modo ripararle o per valutare con calma e a volte con nostalgia, di sostituirle.
Nel lavoro con gli arcieri, Tina ed io aiutiamo
semplicemente a “contenere frecce” finché sia giunto il momento, per chi lo
desidera, di poterle guardare una per una, con pazienza, per chiedersi: Mi
servono ancora? Ne devo aggiungere altre? Come dovranno essere? Posso riparare
quelle rovinate? In quale modo? Ne vale la pena?
Ogni arciere si fa costantemente queste domande, quando
guarda con attenzione la sua faretra, quasi sempre in solitudine. E le sue
scelte, di solito, sono facili e precise perché sa esattamente come mai quella
freccia non ha retto l’impatto .
Ma può arrivare un tempo in cui qualcosa “non torna” o si
ha la sensazione che si continui a costruire frecce che si rompono sempre nello
stesso modo… Come tutti gli esseri umani, creature essenzialmente sociali,
l’arciere può sentire, a un certo punto, l’esigenza di un confronto con un
compagno di viaggio, scelto tra i tanti . A volte ho l’onore di essere
io, quel compagno di viaggio.
Anche il linguaggio tecnico utilizzato risulta essere
metafora delle situazioni reali della vita: dal “fare centro” al soffrire da
“panico da bersaglio” ci offrono spunti per pensare a tematiche come identità,
motivazioni, apprendimenti, etica ed estetica, non per offrire risposte, ma per
ispirare domande.
La ricerca di “sintonia con il flusso” è altresì utilizzato come metodo per entrare in contatto con la Natura e con l’Uomo, dove tutto è in accordo con il presente e con il passato, con il visibile e l’invisibile, con il nostro intimo e con coloro fuori-da-noi dove un piccolo, piccolissimo passo, può generare una grande trasformazione.
La ricerca di “sintonia con il flusso” è altresì utilizzato come metodo per entrare in contatto con la Natura e con l’Uomo, dove tutto è in accordo con il presente e con il passato, con il visibile e l’invisibile, con il nostro intimo e con coloro fuori-da-noi dove un piccolo, piccolissimo passo, può generare una grande trasformazione.
Il tiro con l'arco è, per me, metafora magica,
rigenerazione, contatto con la natura, costruzione personale, filosofia del
vivere e psicologia applicata. E' Amare.
Un giorno, riflettendo su quanto io e la collega
Tina Dolif facevamo, per onorare questa meravigliosa disciplina, scrissi
questo:
che tu ne sia consapevole o meno.
Maria Grazia Schembri
Dottore in Psicologia
Counselor e Mediatrice di Conflitti
Cell 338 1873210
e-mail info@famigliando.it
Maria Grazia Schembri
Dottore in Psicologia
Counselor e Mediatrice di Conflitti
Cell 338 1873210
e-mail info@famigliando.it
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